venerdì 19 febbraio 2010

Killshot

L’assassino professionista Armand Degas, meglio noto come “Falco nero”, segue da sempre i suoi metodi e le sue regole, soprattutto da quando ha perso il fratello più giovane a causa di una sua leggerezza. Il suo approccio è spietato ma rigoroso: far fuoco solo quando si ha la certezza di uccidere a colpo sicuro e uccidere chiunque incroci il tuo sguardo durante una missione. Durante un colpo a Detroit assieme al giovane balordo Richie Nix, il suo sguardo incrocia quello di Wayne e Carmen Colson, una coppia di coniugi in crisi che riesce a metterli in fuga. Sotto il programma di protezione testimoni dell’FBI, Carmen e Wayne vengono trasferiti a St. Louis con una nuova identità, mentre i due killer restano sulle loro tracce.
Nella mutua corrispondenza fra cinema e letteratura pulp, ci sono autori che riescono meglio di altri ad interpretare e continuamente ridefinire questa interconnessione. Elmore Leonard è uno di questi. Forse il più grande autore di quel noir letterario tardo-novecento la cui violenza, velocità e vivacità di scrittura hanno influenzato gran parte del cinema contemporaneo. Tratto da un suo romanzo datato 1989, Killshot, purtroppo, difetta proprio di queste tre componenti. La regia di John Madden, abituata ad una gestione “teatralizzante” dei tempi e degli attori (Shakespeare in Love; Proof – La prova), è in evidente imbarazzo di fronte al dinamismo e all’ironia atipica del mondo noir di Leonard, ma, in particolar modo, il film evidenzia tutti i limiti intrinseci di una logica che delega tutto il destino al giudizio dei test screening. Per assecondare il pubblico più eterogeneo e dissonante, Killshot arriva a cambiar tono ad ogni inquadratura e a distribuire il peso narrativo delle varie sequenze in modo del tutto illogico e mal equilibrato.
Della sostanza letteraria di Elmore Leonard, Killshot mantiene solo la solida ossatura fatta di dialoghi movimentati come scene d’azione e di contrasti fra personaggi laconici, squilibrati e logorroici. Mandanti del massacro sono i due fratelli Weinstein, sempre pronti a uccidere il vitello grasso per quei film destinati al sicuro successo, e a gettare dalla Rupe Tarpea gli aborti produttivi con la stessa facilità, delegandoli al sottocircuito dell’home video come accaduto a Killshot. Su tutto e tutti, si erge però la stazza mastodontica e lo sguardo a tratti cupo e a tratti sardonico del killer Mickey Rourke. È lui l’elemento che pare realmente fuoriuscito dall’universo letterario di Elmore Leonard: a un tempo caratterista da sottogenere, a un altro interprete leggendario.





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